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Messaggio Da bellavita Sab Mar 19, 2011 9:40 am

L'articolo di Francesco Battistini che racconta per il Corriere della Sera l'esperienza di un ospizio all'interno di un kibbutz israeliano.
Fonte: Corriere della Sera, di Francesco Battistini 15/03/2011
Ariela urlava sempre. Non faceva che urlare. Si svegliava urlando e urlando s’addormentava, se s’addormentava, com’è per la demenza senile. Settantasei anni cancellati. Mai una parola. Solo urla: «I familiari, noi infermieri, una fatica. E per lei una sofferenza. Si sgolava, si scarnificava. Le davamo 14 pillole al giorno: antipsicotici, antidepressivi, antidolorifici, antitutto...» . Alla mezza, Ariela entra nella fumeria su una carrozzella, occhi al soffitto. La seconda dose è già sminuzzata in una scatoletta. Zero cinque grammi di cannabis. La fiammella s’accende, il fumo va in un sacchetto di plastica. Ariela ci si tuffa, naso e bocca. Inspira. Prima ansimando, poi lentamente. Servono minuti: i muscoli del viso si distendono, s’aprono i pugni. «Non sapevamo niente di lei. Ora dice qualcosa in francese. L’altro giorno è uscito un ricordo di cose che leggeva» . Ariela non urla più. Gli occhi suoi guardano negli occhi nostri. La bocca si muove in un mezzo sorriso: «Sì, così sto bene!...» . Li curano con le canne. Nel cuore d’Israele. Nel mezzo di 650 ettari coltivati e d’un kibbutz, il Naan, famoso tra gli agronomi per un suo sistema d’irrigazione. Da dieci mesi, qui si sperimenta un nuovo modo d'assistere gli anziani «problematici» . Parkinson, Alzheimer avanzati. Tutti i dementi che di solito campano a cocktail di farmaci, sorvegliati senza sosta, talvolta legati, comunque persi nei loro labirinti di tremiti, di grida, di smemoratezza. Il primo ospizio al mondo che somministra marijuana. Origine controllata del tipo «Erez» , foglia grande. Trentasei pazienti. Tre volte al giorno. Un protocollo autorizzato da governo e famiglie: «Cercavamo una via per dare qualità alla fine della vita— dice la geriatra Inbal Sikorin —. Sapevamo come farli sopravvivere, non come farli vivere in modo dignitoso. La morfina, i farmaci danno sempre un sacco di problemi: vomito, costipazioni, spesso peggiorano il quadro complessivo. Non credevamo che un semplice spinello li cambiasse in questo modo» . Vecchietti e bambini, malati terminali e agonie interminabili. In Israele, l’uso medico della cannabis lo studiano dal ’ 64. Ora è prassi. C’è un elenco di malattie per le quali il ministero autorizza la prescrizione. E in alcuni ospedali, da Tel Hashomer all'Hadassah, mescolata nei lecca-lecca o nei biscottini della merenda, la marijuana viene testata anche su un campione di 480 piccoli malati di cancro, dai 2 ai 12 anni: «La usiamo sui bambini per ridurre gli effetti della chemioterapia, i conati, la perdita di capelli — spiega il professor Raphael Meshulam della Hebrew University —. Finora ricorrevamo soprattutto all’olio di cannabis, sotto la lingua del paziente. Ma in categorie particolari, giovanissimi e anziani, è più efficace farla mangiare o fumare» . L'erba ai pazienti in erba: e il rischio d’assuefazione? «La sperimento su di loro da tempo, non ho mai avuto nessuna controindicazione. L’unico problema è vincere lo scetticismo e il pregiudizio» . La cannabis non guarisce. Lenisce. E la sperimentazione non è senza rete. La società che rifornisce gli ospedali si chiama Tikun Olam, «l’aggiustamondo» : serra in Galilea, spaccio in una farmacia di Tel Aviv, dov’è sempre fila di clienti. Non mancano i controlli: «Ogni tanto i poliziotti si fingono pazienti — racconta Tuby Zolotov —, perché la «maria» la vendiamo per molti usi, dalla cosmesi alla cura dell’osteoporosi, ma è pur sempre droga...» . Nel kibbutz, le dosi stanno in cassaforte: «Non c’è nessun costo per il paziente— spiega la dottoressa Sikorin —, perché il risparmio sui medicinali è grande. Questo è un grande dono della terra. E le case farmaceutiche non gradiscono...» . C’è anche un problema etico: non è troppo facile zittire i malati drogandoli? «Ah sì? È meglio farli fumare o siringarli d’insulina? Chieda a questi anziani...» . Nel fumoir c’è Moshe, pittore scrittore di 78 anni, sopravvissuto alla Shoah, convivente del Parkinson. «Tremava, straparlava...» . Da sei mesi ha ripreso a disegnare con la china, legge libri. «Non riuscivo nemmeno a prendere un bicchiere d’acqua» , si ricorda: «Ora mi danzano le mani, le gambe, la testa! E parlo!» . Sogna d’esporre i quadri di questa sua nuova stagione: «Sa che mi rado da solo? Non lo facevo da anni!» . Non vivrà molto, vivrà meglio: «Viva il fumo!» .



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