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Appunti per una riflessione sulla spesa pubblica
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Appunti per una riflessione sulla spesa pubblica
A cosa serve il denaro pubblico?
Imposte e contributi sociali pesano per circa il 43,2% del Pil.
Nella classifica europea dell’incidenza sul Pil del prelievo tributario e contributivo, nell’Unione Europea l’Italia si piazza quindi al quinto posto (insieme alla Francia), preceduta da Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%) e Austria (43,8%).
Questo non significa che si lavori quasi un giorno su due per lo stato, come sostengono coloro che vorrebbero una riduzione delle imposte. Le somme prelevate sui redditi, sui patrimoni, sui consumi ci ritornano sotto forma di produzione di beni pubblici o sotto forma di redistribuzione. Senza imposte e contributi niente scuola pubblica, niente sanità, niente pensioni, niente strade, niente assistenza ai poveri, niente sicurezza, ecc.
Ma chi trae vantaggio dalle spese pubbliche?
I contributi sociali servono per le pensioni. Ma il resto? Delle spese scolastiche beneficiano scolari e studenti a cui viene data la possibilità di studiare, ma non solo, perché è l’intera collettività che trae beneficio dalla buona qualità della forza lavoro di un paese. E così la redistribuzione verso i poveri avvantaggia i poveri, ma è nell’interesse di tutti mantenere la coesione sociale. Le strade avvantaggiano tutti, non solo chi le usa, perché servono per il trasporto merci, ecc. Tutti beneficiano direttamente o indirettamente delle spese pubbliche e questo giustifica la contropartita di pagare le imposte.
Ma le imposte non sono sufficienti a coprire le spese dello Stato. Per questo c’è il problema dell’indebitamento (detto anche deficit o disavanzo) pubblico. E se lo Stato continua a indebitarsi, di anno in anno il deficit va ad aumentare il debito pubblico, che è la somma dei deficit accumulati nel tempo. Lo Stato si indebita emettendo titoli del debito pubblico (Bot, Btp, ecc.) che vengono acquistati da privati, imprese, banche sia all’interno del paese che all’estero. (del debito pubblico italiano circa metà è in mano estera).
In fondo lo Stato si indebita per far fronte alle spese, esattamente come fanno molte imprese.
Ma qual è il problema del debito?
Il vero problema è che tanto maggiore è il debito, tanto maggiori sono gli interessi che lo Stato deve versare a coloro che hanno acquistato titoli del debito pubblico. Il debito pubblico italiano è di circa 1800 miliardi di euro, 118% del Pil, e la spesa per interessi incide in Italia per 4,6% del Pil, ovvero 72 miliardi di euro (stime per il 2010). In questo periodo i tassi di interesse sono bassi, ma se dovessero aumentare aumenterebbe anche la spesa dello Stato per interessi. Una parte non indifferente delle imposte serve per pagare gli interessi sul debito e quindi non va a beneficio dei cittadini.
Quando poi uno Stato accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restituire capitale e interessi; in questo caso lo Stato dovrà pagare interessi più elevati agli investitori per compensare il “rischio di insolvenza”, il che aggrava ulteriormente i conti pubblici. Quindi è opportuno cercare di ridurre il debito, soprattutto per un paese come l’Italia che ha un debito molto alto e quindi deve provvedere a una spesa per interessi molto alta.
Ma a questo punto dobbiamo chiarire che non è questo il momento di pensare a ridurre il debito. Come insegnava Keynes, in una situazione di crisi, in cui ci sono alta disoccupazione, capacità produttiva inutilizzata, imprese che chiudono, la spesa pubblica finanziata col debito accresce il livello di attività economica e favorisce quindi la ripresa. Se la spesa per consumi è ridotta, se gli investimenti calano e le imprese chiudono, l’intervento dello Stato attraverso una spesa che necessariamente provoca un aumento del disavanzi di bilancio pubblico è l’unica strada che può essere seguita per stimolare la ripresa. Una volta consolidata la ripresa si può pensare a ridurre il debito. Se in fase di crisi si cerca di tagliare la spesa pubblica, la crisi peggiora, perché il calo della domanda pubblica si associa a quello della domanda di consumi e investimenti. Con l’inasprimento della crisi calano anche le entrate tributarie (cosa che è successa in Italia nel 2009) e quindi deficit e debito crescono. Il trattato di Maastricht poneva il tetto del 3% al rapporto disavanzo/Pil e quello del 60% al rapporto debito/Pil. Il tentativo di rispettare i parametri di Maastricht in questa fase di crisi ha costituito un serio limite alle possibilità di ripresa e non solo in Italia.
Ma, dati i vincoli di Maastricht e dato che il nostro debito è molto alto, è chiaro che l’espansione della spesa dello Stato deve essere limitata (anche se ci sarebbero ampi spazi se solo fosse condotta una seria lotta all’evasione) e perciò si deve guardare soprattutto alla qualità della spesa. Ma In Italia c’è un ampio spazio per migliorare la qualità della spesa. La spesa per la ricerca, per il sostegno dei redditi, per l’assistenza ci vede agli ultimi posti nell’Unione Europea.
Come usare la spesa pubblica? Ne parla il rapporto Sbilanciamoci 2010 “Uscire dalla crisi con un nuovo modello di sviluppo” scaricabile su http://www.sbilanciamoci.org/index.php?option=com_remository&func=fileinfo&id=123
Questo rapporto può essere il punto di avvio di una discussione.
Imposte e contributi sociali pesano per circa il 43,2% del Pil.
Nella classifica europea dell’incidenza sul Pil del prelievo tributario e contributivo, nell’Unione Europea l’Italia si piazza quindi al quinto posto (insieme alla Francia), preceduta da Danimarca (49%), Svezia (47,8%), Belgio (45,3%) e Austria (43,8%).
Questo non significa che si lavori quasi un giorno su due per lo stato, come sostengono coloro che vorrebbero una riduzione delle imposte. Le somme prelevate sui redditi, sui patrimoni, sui consumi ci ritornano sotto forma di produzione di beni pubblici o sotto forma di redistribuzione. Senza imposte e contributi niente scuola pubblica, niente sanità, niente pensioni, niente strade, niente assistenza ai poveri, niente sicurezza, ecc.
Ma chi trae vantaggio dalle spese pubbliche?
I contributi sociali servono per le pensioni. Ma il resto? Delle spese scolastiche beneficiano scolari e studenti a cui viene data la possibilità di studiare, ma non solo, perché è l’intera collettività che trae beneficio dalla buona qualità della forza lavoro di un paese. E così la redistribuzione verso i poveri avvantaggia i poveri, ma è nell’interesse di tutti mantenere la coesione sociale. Le strade avvantaggiano tutti, non solo chi le usa, perché servono per il trasporto merci, ecc. Tutti beneficiano direttamente o indirettamente delle spese pubbliche e questo giustifica la contropartita di pagare le imposte.
Ma le imposte non sono sufficienti a coprire le spese dello Stato. Per questo c’è il problema dell’indebitamento (detto anche deficit o disavanzo) pubblico. E se lo Stato continua a indebitarsi, di anno in anno il deficit va ad aumentare il debito pubblico, che è la somma dei deficit accumulati nel tempo. Lo Stato si indebita emettendo titoli del debito pubblico (Bot, Btp, ecc.) che vengono acquistati da privati, imprese, banche sia all’interno del paese che all’estero. (del debito pubblico italiano circa metà è in mano estera).
In fondo lo Stato si indebita per far fronte alle spese, esattamente come fanno molte imprese.
Ma qual è il problema del debito?
Il vero problema è che tanto maggiore è il debito, tanto maggiori sono gli interessi che lo Stato deve versare a coloro che hanno acquistato titoli del debito pubblico. Il debito pubblico italiano è di circa 1800 miliardi di euro, 118% del Pil, e la spesa per interessi incide in Italia per 4,6% del Pil, ovvero 72 miliardi di euro (stime per il 2010). In questo periodo i tassi di interesse sono bassi, ma se dovessero aumentare aumenterebbe anche la spesa dello Stato per interessi. Una parte non indifferente delle imposte serve per pagare gli interessi sul debito e quindi non va a beneficio dei cittadini.
Quando poi uno Stato accumula un livello molto elevato di debito, gli investitori cominciano a temere che esso non sia “sostenibile”, cioè che lo Stato non riuscirà a restituire capitale e interessi; in questo caso lo Stato dovrà pagare interessi più elevati agli investitori per compensare il “rischio di insolvenza”, il che aggrava ulteriormente i conti pubblici. Quindi è opportuno cercare di ridurre il debito, soprattutto per un paese come l’Italia che ha un debito molto alto e quindi deve provvedere a una spesa per interessi molto alta.
Ma a questo punto dobbiamo chiarire che non è questo il momento di pensare a ridurre il debito. Come insegnava Keynes, in una situazione di crisi, in cui ci sono alta disoccupazione, capacità produttiva inutilizzata, imprese che chiudono, la spesa pubblica finanziata col debito accresce il livello di attività economica e favorisce quindi la ripresa. Se la spesa per consumi è ridotta, se gli investimenti calano e le imprese chiudono, l’intervento dello Stato attraverso una spesa che necessariamente provoca un aumento del disavanzi di bilancio pubblico è l’unica strada che può essere seguita per stimolare la ripresa. Una volta consolidata la ripresa si può pensare a ridurre il debito. Se in fase di crisi si cerca di tagliare la spesa pubblica, la crisi peggiora, perché il calo della domanda pubblica si associa a quello della domanda di consumi e investimenti. Con l’inasprimento della crisi calano anche le entrate tributarie (cosa che è successa in Italia nel 2009) e quindi deficit e debito crescono. Il trattato di Maastricht poneva il tetto del 3% al rapporto disavanzo/Pil e quello del 60% al rapporto debito/Pil. Il tentativo di rispettare i parametri di Maastricht in questa fase di crisi ha costituito un serio limite alle possibilità di ripresa e non solo in Italia.
Ma, dati i vincoli di Maastricht e dato che il nostro debito è molto alto, è chiaro che l’espansione della spesa dello Stato deve essere limitata (anche se ci sarebbero ampi spazi se solo fosse condotta una seria lotta all’evasione) e perciò si deve guardare soprattutto alla qualità della spesa. Ma In Italia c’è un ampio spazio per migliorare la qualità della spesa. La spesa per la ricerca, per il sostegno dei redditi, per l’assistenza ci vede agli ultimi posti nell’Unione Europea.
Come usare la spesa pubblica? Ne parla il rapporto Sbilanciamoci 2010 “Uscire dalla crisi con un nuovo modello di sviluppo” scaricabile su http://www.sbilanciamoci.org/index.php?option=com_remository&func=fileinfo&id=123
Questo rapporto può essere il punto di avvio di una discussione.
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